IV

IL «PENSIERO DOMINANTE»

«Quando l’uomo concepisce amore, tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede piú se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ecc. come si stesse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia né del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ecc. fuorché quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo cosí potentemente da tutte le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato. Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze della vita e ridicolezze ch’io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch’io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di parole, sia morale sia fisica sia anche solamente filologica, come motti insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali».

Questo pensiero dello Zibaldone del ’19 che il Leopardi certo rilesse quando nel 1827 compilò l’indice «del mio Zibaldone» e ve lo segnalò, mentre indica la sensibilità, l’atteggiamento amoroso del Leopardi comune alla topica del Pensiero dominante, serve bene a distinguere un tono minuto nutrito da sensistiche indagini sul piacere e quello piú alto e romantico con cui certi loci communes leopardiani vengono ripresi e sostanzialmente rinnovati nel nuovo clima spirituale[1] e nella nuova poetica che trova nei primi versi il suo capolavoro piú indiscutibile:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel...

Qui, lontano dal piú tenue alone giovanile[2], un sentimento sa farsi centro di una poesia liberandosi da ogni bisogno di appoggio paesistico o di meditazione risolta in canto ed indicandosi quasi polemicamente come ossessione altissima con cui la personalità del poeta viene ad identificarsi in una adorazione dell’ideale che è insieme affermazione del proprio mondo interiore. Sí che le “beate illusioni” che negli idilli, nelle Operette avevano un carattere di compenso sentimentale (ricordi, fanciullezza, figure, paesaggi vaghi) qui, come depurate da ogni funzione nostalgica, unificate nella passione amorosa, divengono una realtà che solo un momento di ripensamento ulteriore può porre in dubbio e discutere anche nella loro vita poetica.

Motivo estremamente unitario e sostenuto da una tensione che non cede mai, proprio perché è il risultato di un processo intimo integrale (non puro sfogo sentimentale) e il risultato coerente di una poetica tanto conscia delle sue direzioni che come suo simbolo estetico ha accolto la presenza di un motivo vitale, continuamente affermata, mai descritta o suggerita, di cui è immagine ben poco sensuosa la «torre in solitario campo» dei versi 19-20.

Piú che da una negazione di mezzi stilistici precedentemente adottati questa poetica nasce da una nuova esigenza di poesia non cantata, ma sinfonica, in cui ogni colore ogni immagine traesse origine da uno sforzo di concentrazione interna, da un estremo ripudio della retorica delle immagini, superiore a quello notato in Alla sua donna o nel Coro dei morti perché mossa da un impegno affermativo piú che vista da un distacco per quanto religioso.

Un esame spregiudicato conferma la coerenza della nuova poetica diretta ad un colore, ad una musica nudi di abbondanze sensuose, a una sorta di immaginosità tutta intima, di canto senza abbandoni, teso in un ritmo ascendente e battente che spiega tutte le particolarità stilistiche di una poesia scambiata spesso per ornamento raziocinante o per musica sognante e teneramente sopraffatto.

Cosí il De Robertis con eccessiva immediatezza «senza storia»: «Ma l’espressione par derivare piú da un’orgogliosa saggezza che da un’anima che senta e parli: e la musica che ne risulta è secca e corta, non variata con la tenerezza propria del Leopardi, ma dettata, velocemente con una riga di pensiero estremamente forse posseduto e facile»[3]. Cosí il Flora che pur ben vede la condizione speciale di questo canto («Il Pensiero dominante è una ideale confluenza di rapporti musicali, e di invenzioni cromatiche, ove le immagini si sostengono sull’aereo tessuto di una sintassi meramente lirica; è una vocalità dell’anima che si rifrange in se medesima e non chiede eco alla esterna natura...»), quando parla di un canto «rapito e tenero»[4] sposta il valore del Pensiero su di un piano non suo, troppo danzante e canoro, tremulo ed estatico.

Si osservi anzitutto il calcolo compositivo del Leopardi nel delineare lo schema di questa poesia: sette strofe piú brevi, piú accese, piú impellenti; sette strofe piú lunghe, a mosse piú ampie, meno scattate: osservazione che può illuminare l’attenzione vivissima del nuovo Leopardi ad una libertà sempre piú strutturata per cui la nuova poetica non si esaurisce in un turgore insistente e monotono, ma vive di una presenza che sa articolarsi e comporsi musicalmente, di un motivo animatore forte del suo essere «presente».

Perché uno dei caratteri ben visibili nel Pensiero è questa prepotenza del presente che nel contrasto con il passato diventa il momento davvero personale, superamento di toni piú blandi finalmente illuminati da una luce nuova ed intima che tutto trasfigura:

sott’altra luce che l’usata errando.

Il passato è come affievolito, pallido di fronte al presente la cui determinazione suona sempre come un innalzamento improvviso alla vera realtà, alla realtà vitale.

Giammai d’allor che in pria

questa vita che sia per prova intesi,

timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco...

Sempre i codardi, e l’alme

ingenerose, abbiette

ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

subito i sensi miei...

Il presente è affrontato e risolto in fantasma poetico, non allontanato, aggirato come momento deteriore ed impoetico. Sí che il «pensiero», cioè il mondo interiore qui affermato, è sempre al centro dell’ispirazione ed anche poeticamente pare simbolico il verso

e ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Dove il «tuo soggiorno» non è solo soggiorno di «te in me», ma anche di «me in te, con te» e mantiene una unione continua in tutto il canto: il pensiero d’amore è insieme trascendente e immanente all’animo del poeta e produce cosí quel duplice e contemporaneo movimento di ascesa e discesa, di aspirazione e di possesso che supera il solito platonismo in una maggiore certezza.

Coerentemente tutta la costruzione di questo canto mira a quelle precisazioni formali che abbiamo notato nell’introduzione: eliminazione di ogni rappresentazione colorita, di armonizzazione con un paesaggio che non sia ideale, di situazioni interne, con similitudini di appoggio sensuoso, creazione di un clima teso, eroico, in cui non un turgore impuro, ma una forza che sale dal profondo, da una profonda unità antidescrittiva, di lirica assoluta, crea puri rapporti musicali. Una musica che raggiunge una sua coerenza senza distendersi e senza ricorrere alla tenerezza della suggestione sentimentale, alla trepida consistenza del canto.

Già la prima strofa qualifica in maniera intera la nuova forma: parole accordate dall’intimo, spesso senza verbo, affacciate da una spinta musicale che non si fa clamorosa, portando la sua forza nell’interno delle parole stesse piú che nelle volute reboanti come nelle canzoni patriottiche, facendo sentire la sua tensione proprio entro i due aggettivi iniziali ed emblematici in cui anche il valore fonico di quella doppia «s» centrale accentua questa tensione pari e incontenibile e pur misurata musicalmente.

Valori fonici che convergono in questa individuazione ed accordo delle parole con sapienza vigile, mai alessandrina:

terribile, ma caro.

E insieme contribuisce a questa musica di echi profondi e senza alone la povertà di legami esterni

(di mia profonda mente),

la riduzione essenziale di ogni movimento. E contribuisce la costruzione che non discende verso l’abbandono finale, e si erge anzi con il suono cupo e rilevato del «lugubri» e con lo scandito incalzare dell’ultimo verso.

Sí che pur se il commentatore può ritrovare espressioni (e sono rare) che vengono da una tradizione letteraria molto presente agli idilli, sente come esse abbiano perso qui la cadenza che là era realizzata: cosí nel «consorte» si può ritrovare un’espressione dell’Ossian (Dargo, traduzione Leoni) «de’ miei dolci anni consorte», e insieme si sente l’estraneità di tale richiamo degradato a richiamo di vocabolario.

I due interrogativi che iniziano la seconda strofa[5] (ogni strofa ha una sua mossa caratteristica) portano un nuovo impulso dopo la proposta grandiosa del tema di cui le tredici strofe che seguono possono sembrare diluzione e svolgimento accademico mentre in realtà provengono tutte da un’unica posizione centrale che le irraggia con pari urgenza espressiva.

La terza strofa aggiunge poi un’impressione di nudità e di deserto grandioso con una coerenza interna perfetta. Dopo le mosse piú agitate e complesse della strofa precedente, il «come» esclamativo inizia un movimento desolato e solenne; il pensiero diventa «tu», la mente si fa «solinga», vuota di altre «voglie» e la rapidità di uno sfollamento della memoria è adeguata dal suono di «si dileguar» e dall’immagine della torre in «solitario» campo. E anche qui si noti come l’immagine, lungi dal presentarsi paesistica e descrittiva, vive di una sensazione interna, immediata espressione del vero motivo: la grandiosità, l’unicità del pensiero «gigante» in mezzo alla mente «solitaria». È l’immagine che acquista forza dal verso finale rilevatissimo nell’esprimere la solidità, la staticità potente del pensiero d’amore e la parola «gigante» (piú potente perché sostantivo) è il centro di gravitazione di tutta la strofa, cosí abilmente collocato in mezzo ad un verso fatto di brevi parole e i cui termini estremi sono «tu» e «lei», i termini essenziali di questo alto dramma lirico.

Poi la strofa quarta riprende con nuovo tono di estasi questo ritmo di solitudine: «fuor di te solo», con una mossa di esclamazione slanciata che batte per contrasto su «tutte», «tutta» con la solita tecnica di ripetizioni e di ritmo ascendente che si duplica nei versi successivi con le ripetizioni «vano» e «vana», «gioia» e «gioia», con l’appoggio di una aggettivazione essenziale, poco colorita: «intollerabil noia», «commerci usati», «gioia celeste», aggettivazione dell’anima profonda piú che della sensibilità pittoresca.

La presenza di una suggestione letteraria precisa dietro questa strofa[6] potrebbe aprire un’utile discussione sul petrarchismo leopardiano, ma in verità piú che da una congenialità[7] del Leopardi con il Petrarca, questa presenza della lirica petrarchesca nei suoi canti indica la volontà di appellarsi alla lirica piú pura che il Leopardi conoscesse, in un momento in cui ogni residuo arcadico e preromantico scompariva e si curavano soprattutto i colori dell’anima ancor piú della fluidità come d’olio, ammirata altrove dal Leopardi nella poesia petrarchesca.

Riaffiora un’immagine complessa e pittoresca nella strofa quinta:

Come da’ nudi sassi

dello scabro Apennino

a un campo verde che lontan sorrida

volge gli occhi bramosi il pellegrino...

Il suo timbro è in coerenza con questo paesaggio spirituale e cerca anzi di tradurlo in evidenza sensuosa sobria, essenziale, ma non occorre molto insistere per rilevare come questa inserzione pittoresca non sia troppo felice e come essa sia superata dallo stacco piú deciso del verso 33:

tal io dal secco ed aspro...,

approfondito dal «vogliosamente» (uno di quegli avverbi lunghi e consistenti che il Leopardi adoprerà abbondantemente nella Ginestra) e come il «lieto giardino» sia qualcosa di troppo tenero ed umanistico per un’estasi cosí complessa e spirituale. Due membri quasi uguali e ugualmente intonati (ma il secondo al solito piú reciso del primo):

quasi incredibil parmi...

quasi intender non posso...

portano un movimento quasi di pausa sospirosa e non però cantata, sottolineata al centro dalla rima baciata e rinforzata alla fine dalla ripetizione «altro» nonché da un’espressione perentoria come «mondo sciocco».

Due grandi strofe (7a e 8a) propongono un nuovo tema: il disprezzo della morte e delle speranze stolte degli uomini. «Giammai», «sempre»: due avverbi che tagliano una dimensione e imprimono un uguale moto perentorio alle due frasi che terminano ugualmente con l’espressione verbale verso cui salgono come a proporre un tema che viene poi svolto con i due moti iniziati dai piú forti ed attuali «Oggi», «Or»[8], il primo piú breve e il secondo piú complesso e articolato, con tipiche conclusioni che con la loro energia attraggono in un moto ascendente le frasi precedenti:

Di questa età superba,

che di vote speranze si nutrica,

vaga di ciance, e di virtú nemica:

stolta, che l’util chiede

e inutile la vita

quindi piú sempre divenir non vede;

maggior mi sento. A scherno

ho gli umani giudizi; e il vario volgo

a’ bei pensieri infesto,

e degno tuo disprezzator, calpesto.

Tipo di strofe a ritmo battuto e affermativo cui collabora un linguaggio estremamente coerente che si ripete fino al verso 87 con una insistenza che fa pensare al replicato e quasi disarmonico battere sonoro di certe sonate dell’ultimo Beethoven in una interpretazione fischeriana. Si noti la ripetizione con effetto crescente della parola «solo» (versi 76, 82, 85), lo sforzo di affermare con mosse e parole l’unicità del pensiero d’amore:

anzi qual altro affetto

se non quell’uno intra i mortali ha sede?...

Solo un affetto

vive tra noi: quest’uno,

prepotente signore...

Pregio non ha, non ha ragion la vita

se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto.

Quel pensiero d’amore a cui è adibito l’umanissimo «tu» e poi l’assolutezza liturgica del «lui», di fronte a cui il Leopardi accumula le parole della sensualità mondana per degradarle con la qualifica di «voglie» nella fanatica distinzione di valore e disvalore che in questo grande canto trova la sua piú alta e continua espressione:

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

studio d’onor, di regno,

che sono altro che voglie

al paragon di lui?

Naturalmente sarebbe astratto e pericoloso voler verificare una tensione sempre uguale ed ugualmente atteggiata in un monotono grido per quanto sublime. E infatti la strofa undicesima si apre con un movimento quasi gioioso e piú lento

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,

a cui rispondono un finale deciso e fremiti rapidi e movimentati in cui balenano immagini aspre, senza colore:

che tra le sabbie e tra il vipereo morso,

giammai finor sí stanco

per lo mortal deserto

non venni a te, che queste nostre pene

vincer non mi paresse un tanto bene.

Come la strofa seguente si apre con un vastissimo movimento di estasi convinta che raggiunge una pienezza d’incanto musicale cui fa da risoluto sostegno il nesso 107-108:

Che mondo mai, che nova

immensità, che paradiso è quello

là dove spesso il tuo stupendo incanto

parmi innalzar! dov’io

sott’altra luce che l’usata errando,

il mio terreno stato

e tutto quanto il ver pongo in obblío!

Tali, son, credo, i sogni

degl’immortali.

E nel mezzo della strofa esita un momento di abbandono nostalgico che corrisponde alla improvvisa costatazione dell’illusorietà del pensiero d’amore:

sogno e palese error.

Ma il dubbio e l’abbandono al «vago» non sono elementi di questa poetica, specie nella sua prima manifestazione, e la vitalità del pensiero dominante trova nel finale e nella penultima strofa nuove accentuazioni, nuove potenti sottolineature della sua unicità, del suo carattere vigoroso ed attivo che si traduce in una forza di aggettivo che è una interessante violenza linguistica rispetto al Leopardi delle eleganze piú neoclassiche

tu solo – vitale ai giorni miei.

Il cambiamento dell’oggetto di adorazione da pensiero ad angelica beltade, se introduce un calore piú tenero e rapito, una luce piú aurea e piena, non allontana però il canto dalla sua destinazione di musica compatta ed energica come non elimina nessuno dei procedimenti stilistici da noi osservati.

Quanto piú torno

a riveder colei

della qual teco ragionando io vivo,

cresce quel gran diletto,

cresce quel gran delirio, ond’io respiro.

E come ultimo esempio di una coerenza, di un rigore stilistico non misurato criticamente per la mancanza di un riferimento generale preciso, quale meraviglia è l’ultima strofa ansiosa e possente, guidata da mosse interrogative urgenti e a lor modo affermative in cui la spinta musicale del canto non si spenge mollemente, ma si rileva nel distico finale in cui un movimento unico si ripete con piú slancio!


1 Nota il Fubini: «Ma l’uomo è molto piú risoluto del giovane: vi è nella poesia un’orgogliosa coscienza della propria superiorità, di chi non ha soltanto sentito, ma giudicato secondo un saldo sistema di pensiero la pochezza altrui»: Commento ai Canti, Torino 1930, p. 125.

2 Del resto è lecito notare l’arbitrio di chi ricerca sempre nello Zibaldone i precedenti di una poesia senza tener poi conto del tono nuovo e dello svolgimento della personalità leopardiana.

3 G. De Robertis, Commento ai Canti, Firenze 1927, p. 251.

4 F. Flora, Commento ai Canti, Milano 1937, p. 286.

5 Una particolare complessità ha reso discutibile questa strofa tanto piú quanto piú ci invischiamo in una spiegazione di sintassi puramente prosastica: perché «tuo» e poi «suo»? A chi si attribuiscono i «suoi» e chi è «ei»? A me non pare dubbio che tutto si riferisca all’amore, al pensiero dominante con cui la personalità del poeta adorando ed affermando s’è identificata e che è l’unico soggetto che campeggia in queste strofe. Ogni discussione sarebbe incoerente con questa poetica cosí unitaria: «suo» non è di «Natura arcana» (e «arcana» ha il senso misterioso e fatale che ha soprattutto nel Coro dei morti), ma del «dolcissimo, possente» e il cambiamento di «tuo» in «suo» non è che una mossa di prospettiva diversa e una specie di presentazione quasi rivolta agli uomini in generale. E cosí «suoi» non si riferisce a «natura», ma a «pensiero» ed «ei» in questa sorta di teologia rapsodica non può essere se non quell’unico «dominatore» a cui ci si rivolge col «tu» umano, col teologico «lui». Tanto piú che è chiara la suggestione presente al Leopardi, del verso dantesco: Amor che nella mente mi ragiona sí che l’avvicinamento di «ei» e «ragiona» veniva a rivelare senza nominarlo la natura del «pensiero» che direttamente non viene mai chiamato «amore», come in certe liturgie paurose di evocare il nome di Dio.

6 I passi petrarcheschi «Come sparisce e fugge» (Gentil mia donna), «Dico ch’ad ora ad ora» e «Fugge al vostro apparire» (Perché la vita è breve).

7 La nota tesi di C. De Lollis in Saggi sulla forma poetica dell’800, Bari 1929.

8 Si noti l’abbondanza degli avverbi spesso accumulati per un suono e un colore antipittoresco.